Il campione mondiale di bartending, oggi consulente Horeca e imprenditore del fuoricasa Samuele Ambrosi ha condiviso con RMM la sua visione sulla mixology. Il proprietario di Cloakroom (aperto nel 2005 a Treviso) e Boss Hogg (del 2023) traccia così la direzione del cocktail bar: "Trasformarlo in catena? Si può fare se il brand è forte e l'offerta verticale", afferma Ambrosi nel corso dell'intervista a chiusura di Beer&Food Attraction (che proprio grazie al bartender, dal 2026 ospiterà uno spazio apposito evoluzione di Mixology Circus).
L'intervista a Samuele Ambrosi.
Come è andata la partecipazione a B&F Attraction?
Detonante. Un termine un po’ forte, ma visto il contesto economico e dei consumi che stiamo vivendo, il riscontro è stato sopra le aspettative. La selezione del Mixology Circus è piaciuta e per il 2026 abbiamo già le prime adesioni.
Come si è avvicinato al mondo del bar e della mixology?
Arrivo da una famiglia di ristoratori. I miei hanno una pizzeria i provincia di Verona (Pizzeria Cavour a Legnago, ndr). A 14 anni ero già a lavare bicchiere dietro il banco. A 15 anni mio papà mi ha dato la valigia e mi ha detto: “Vai e impara”. Son partito da Asiago, poi Svizzera e altre esperienze fra hotel e ristoranti in Francia e Danimarca. Al bar mi sono avvicinato tardi. A Londra, l’esperienza principale. Lì capisco che il bartender a differenza del cameriere crea, costruisce un’opera, ma soprattutto deve confrontarsi con una sfida che sala e cucina non conoscono: il fattore espresso, devi pensare, costruire, comporre tecnicamente e servire, magari con un sorriso, il tuo cocktail. A completare la mia formazione sono state le competizioni, fino al mondiale di Singapore che vinco. Capisco che questa è la mia strada. Apro la mia attività dopo aver capito che il lavoro da dipendente non fa per me e va bene. Dopo essermi trasferito a Treviso, città che vive di aperitivo, ho aperto Cloakroom e poi Boss Hogg. Nel frattempo ho investito nei Cloakstudios: contenitore di 280 mq dove sviluppo l’attività di formazione B2B, branding, consulenza, collaborazioni (in uscita con Zafferano, da giugno, un set di bicchieri pensati per i cocktail, ndr).
Mixology Circus è stata l’occasione per fare il punto sulle ultime tendenze del settore. Andiamo con ordine e partiamo dal tema più dibattuto: low-no alcol. Che ne pensa da bartender e consumatore?
È una certezza, e lo dico con un certo dispiacere. Purtroppo, noto una certa rigidità nel messaggio sul no-low alcol con il rischio che si perda anche l’aspetto di convivialità associato al dopocena. L’Italia è vissuta sul rito del cordiale in taverna. L’unica soluzione è quindi quella di progredire sulla qualità del prodotto senza demonizzare il consumo classico.
Drink zero waste?
Sono contento ci sia attenzione sulla lotta allo spreco alimentare. Di fatto, si tratta di riscoprire quello che faceva la nonna. E per la professione dovrebbe essere un presupposto. Ad oggi, l’esaltazione massima è quella di prendere un prodotto, tipo una pesca e declinarla in così tanti modi da utilizzarne ogni parte: la buccia, la polpa, il nocciolo.
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Ready-to-drink?
Sì, se la qualità è equivalente al drink espresso o al prodotto in mescita allora possiamo parlarne.
Da “trevigiano”, che ne pensa del successo degli sparkling wine nella mixology?
Il Bellini è la cartolina dell’Italia. Quindi il cocktail con le bollicine è un must. Storicamente si è preferito lo Champagne, ora ci si apre anche al fermentato con prodotti base frutta, ricchi di Co2. Questa è una spinta in più che intercetta il valore aggiunto dello sparkling: abbassa la gradazione alcolica e stuzzica la sensazione croccante che è estasi palatale.
Infine, se ne parla poco, ma anche il ghiaccio è fondamentale.
Assolutamente sì. Parliamo di un alimento al pari di carne e verdura e come tale deve ricevere le giuste attenzioni. Inoltre, qui si muove la frontiere della mixology: parlo dell’estrazione in negativo. Una tecnica che permette di ottenere il massimo da una materia prima sottoponendola a temperature molto basse. Per ottenere questi risultati, alcuni bartender si stanno già rifornendo di abbattitori derivati dalla farmacia.
Come si sta evolvendo, invece, il cocktail bar? È possibile immaginare in Italia una catena di locali di questo tipo?
Per trasformarsi in catena, al format cocktail bar in Italia manca ancora lo status di locale nella vita quotidiana. Prendiamo la pizza: si mangia una volta la settimana e la pizzeria ha conquistato il suo giro. Il cocktail no, non è ancora percepito come bene che appaga e dal consumo ricorrente. Detto ciò, penso che oggi ci sia spazio per locali semplici che offrono un bere comprensibile e riconoscibile a cui poter aggiungere i cavalli di battaglia. Certo, dietro ci deve essere un brand molto studiato. Un’evoluzione simile ce l’hanno avuto le gelaterie: una decina di gusti, qualche extra, artigianalità del servizio e una proposta verticale. Attualmente, un progetto simile si sta sviluppando nelle grandi catene alberghiere: l’utenza è garantita, ma rimangono dei limiti alla sperimentazione.
Che spazio ha il digitale nel bartending?
Il digitale è uno strumento per ingaggiare il cliente, comunicare, fargli fare delle esperienze anche formative prima dell’arrivo sul punto vendita. Purtroppo siamo abituati alle stories, allo scroll e questo sta riducendo la soglia di attenzione. Anche al banco: ora hai secondi per spiegare la tua opera. Si deve quindi far crescere l’aspettativa del cliente al fine di fargli apprezzare fino in fondo il sorso.
L'intervista è tratta da RMM 1/2025, disponibile a questo link: https://ristorazionemoderna.it/magazine/ristorazione-moderna-magazine-1-2025.html