Kebhouze, attiva da fine 2021, conta 24 punti vendita in Italia
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Caso Kebhouze: la ristorazione deve imparare a interpretare i numeri

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- Kebhouze Gianluca Vacchi - Kebhouze perdita 2022

La notizia è rimbalzata su diverse testate: Kebhouze è in perdita. Morale? Gianluca Vacchi ha fallito. Peccato che non sia così e a dirlo sono i numeri. Gli stessi la cui interpretazione, purtroppo, ancora sfugge al mondo della ristorazione tradizionale. E con questa definizione intendiamo tanto gli operatori classici (spesso a gestione famigliare) quanto il mondo della comunicazione B2C, più attenta al clickbait che alla comprensione del mercato food retail che, in Italia, vale circa 6,1 miliardi, conta 10mila punti di consumo e 700 diverse insegne (dati TradeLab-Censis). 

 

Le perdite non sono il segno del fallimento.

Innanzitutto la notizia. Secondo alcune testate non specialistiche, il "rosso" di 2 milioni messo a registro nel bilancio 2022 sarebbe la spia dell'insostenibilità del brand fondato nel 2021 e che, ad oggi, conta una rete di 24 punti vendita e 149 dipendenti. Più nel dettaglio, le perdite accumulate lo scorso anno sono pari a 1,9 milioni (compreso il passivo di circa 200mila euro dei primi due mesi del 2023). Cifra che ha richiesto di dar fondo alle riserve arrivando a ridurre il capitale a circa 264mila euro. Contesto che, a sua volta, ha richiesto un'operazione "straordinaria", ma quanto mai necessaria anche a livello legale, per riportare il capitale a un milione di euro. Iniezione di liquidità che è stata sostenuta in primi da Confiva Holding, di proprietà di Gianluca Vacchi, che controlla l'insegna dedicata al kebab. Passaggi che hanno fatto scattare l'allarme rosso fra alcuni (poco) addetti al settore, pronti a puntare il dito più che ad analizzare il bilancio. E per rendere meglio l'idea, pensate cosa avrebbero detto gli stessi commentatori di un impresa come Amazon.

La difesa di Oliver Zon: "Perdite in linea con i processi di avviamento di una startup".

A questa visione, che si accompagna a una buona dose di bias congnitivi, ha risposto Oliver Zon, socio fondatore di Kebhouze. Sul suo profilo LinkedIn, in un post dal titolo Facciamo chiarezza, si legge: "Chiediamo rispetto [...] le perdite in realtà sono per noi un fenomeno non imprevisto ma in linea con quelli che sono i processi di avviamento di una startup, per un progetto che ha generato oltre 5 milioni di fatturato nel 2022 e che prevede di raddoppiarlo nel 2023". E ancora: "Kebhouze oggi è un’azienda che ogni giorno fa investimenti, che sono atti di coraggio in un Paese in cui si piange da anni sul tasso di disoccupazione [...] Non usiamo soldi pubblici, non rubiamo nulla a nessuno, vi chiediamo semplicemente di continuare a farci lavorare con umiltà in questa bellissima avventura chiamata Kebhouze. È già difficile così fare impresa in Italia". Parafrasando, la sparata clickbait sulle difficoltà dell'azienda è arrivata troppo presto e in modo troppo superficiale. Peraltro senza considerare una delle regole fondamentali del mercato: per fare soldi servono soldi. Anche nella ristorazione, anche quando si parla di cibo. Non fosse chiaro, ecco quanto detto da Tunde Pecsvari in un'intervista su RM: "Oggi, con un mercato così competitivo che richiede tassi di crescita alti, non è possibile operare sul mercato food retail senza ricorrere al debito. Questo anche e soprattutto se si ambisce alla partecipazione di un equity. Insomma, il debito è fattore essenziale nella crescita. Può sembrare controintuitivo nella vita privata, ma oggi è un approccio indispensabile. Ovviamente tenendo un occhio ai conti. Bisogna capire a fondo la propria azienda, mettendo a punto i giusti Kpi per una maggiore adesione fra business plan e realtà operativa".  

Il gusto non basta, anche la ristorazione deve fare i conti.

Cosa che ormai dovrebbe essere chiara dopo che, a inizio anno, è scoppiato il caso Noma di Copenhagen: ristorante tre Stelle Michelin, per molti anni in testa alle classifiche mondiali dei migliori ristoranti al mondo, eppure costretto ad alzare bandiera bianca (o meglio, cambiare format) a causa degli alti costi di gestione. A partire da quelli per il personale, tirocinanti compresi, che hanno iniziato a ricevere un compenso solo a partire da ottobre 2021. E prima? Una domanda a cui non si è mai ricevuta risposta e illumina il buco nero della ristorazione: la corretta gestione delle risorse umane (per quanto riguarda Kebhouze la voce "salari e stipendi" ai aggira sugli 1,7 milioni di euro). Tema collegato, più in generale, a quello della scelta del business model: come può ritenersi competitivo un menu degustazione da centinaia di euro se non copre i costi per realizzarlo? Domande da cui siamo partiti anche noi di Ristorazione Moderna, quando nell'editoriale del nostro primo trimestrale mettevamo subito le cose in chiaro: il gusto, nella ristorazione, non basta più. Detto diversamente, per quanto buono sia il tuo prodotto, per convincere investitori e clienti bisogna essere consistenti sotto tutti i punti di vista: in cucina, in sala, con i fornitori, nel piano di sviluppo, ecc. Concetto che difficilmente può essere dedotto solo dalla lettura di un bilancio (il primo vero per Kebhouze) e che costituisce la base del food retail (oggi pari a circa il 10% del volume d'affari del fuoricasa in Italia). Chi ancora non lo ha capito è destinato a rimanere indietro: si chiama "darwinismo ristorativo". 

di Nicola Grolla