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Oliver Zon (Kebhouze): "Facciamo chiarezza e diamo tempo alle catene"
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“Facciamo chiarezza” è il titolo utilizzato da Oliver Zon, socio co-fondatore di Kebhouze, per fare luce sull’ultimo bilancio dell'insegna nata nel 2021. Un documento che ha attirato un’attenzione al di là del mero aspetto economico (perdita di circa 1,3 milioni di euro nel primo vero anno di esercizio). Il motivo? "Sicuramente per la figura pubblica di Gianluca Vacchi e la difficoltà della stampa italiana ad approfondire piuttosto che accontentarsi del clickbait. Suo malgrado, e questo lo sappiamo dal momento in cui abbiamo deciso di comunicare il suo coinvolgimento nella società, Gianluca è un moltiplicatore di like. Ci si attacca alla sua figura e non si dà peso alle conseguenze di alcune bugie, come quelle diffuse sull'imminente fallimento e sul rischio che i nostri dipendenti potessero perdere il posto di lavoro", commenta Zon raggiunto al telefono con RM.
L'intervista a Oliver Zon (Kebhouze).
Un danno per voi?
Non solo per noi, ma per tutte le aziende in rampa di lancio. Che sia nel mondo del food retail o in altri settori.
Mettiamo da parte i bias su Gianluca Vacchi, concentriamoci sul business di Kebhouze. Innanzitutto, come si struttura la società?
Abbiamo aperto il primo negozio di Kebhouze il 5 dicembre 2021 a Milano. In 18 mesi abbiamo inaugurato 24 locali, compreso uno a Ibiza. L'idea nasce da un gruppo di amici fra Roma e Milano che hanno condiviso l'idea di dare dignità a un prodotto, il kebab, che funziona benissimo in molti mercati mentre da noi godeva ancora di una cattiva reputazione. Una volta preparato il progetto, lo abbiamo sottoposto a Gianluca Vacchi chiedendogli di finanziarlo. Lui ha deciso di scommetterci al 100% cedendo poi alla Zon Hub, che io dirigo, il 30% della proprietà. Questo perché, proprio secondo Gianluca, il progetto aveva delle possibilità solo se che avevamo avuto l'idea fossimo stati coinvolti in prima persona. Il risultato, in termini numerici, è stato un fatturato di 5 milioni e mezzo.
Come si è arrivati, dunque, alla perdita, comunicata da diverse testate, di 1,9 milioni di euro?
Si tratta di tutta la perdita aggregata di Kebhouze, ossia: quella messa a registro nel nostro primo e unico esercizio completo, il 2022; i primi 25 giorni di vita del brand a dicembre 2021, quando la liquidità è servita per aprire i primi locali; i primi mesi di questo 2023. La voce che più ha pesato è stata sicuramente quella del personale e delle consulenze extra necessarie ad avviare il progetto. A questi costi, poi, si aggiungono le maggiorazioni delle materie prime intorno al 25% e l'aumento dei beni energetici; fattori peraltro condivisi con tutto il fuoricasa. Detto ciò, sapevamo a cosa andavamo incontro: nei nostri business plan ipotizzavamo di chiudere con un passivo di 1,1 milioni di euro. Non ci siamo andati troppo lontani. Segno che le nostre previsioni erano valide: ci siamo strutturati per essere un'insegna internazionale, capace di poter gestire fino a 50 locali. Finché non arriviamo a quel numero difficile pensare a un Ebitda positivo.
Come è stata ripianata la perdita?
Il ripianamento è stato effettuato completamente da Gianluca. Ma questo non ci stupisce. Abbiamo fatto i nostri calcoli, sapevamo di avere le spalle coperte. Anzi, proprio per questo la perdita a bilancio non ci spaventa. Fa parte di un piano di crescita coerente con le nostre ambizioni. Entro il 2025 dovremo andare a break even. Ma se ciò dovesse succedere nel 2026, non sarà un problema. L'importante è avere le idee chiare e parametrare gli sforzi in base alle possibilità, soprattutto finanziarie, che si hanno. Ad oggi, per esempio, abbiamo investito 12 milioni di euro per l'avviamento dell'azienda. Ne verranno investiti sicuramente altri perché vogliamo penetrare in modo proficuo il mercato. Lo stesso che, peraltro, sta cambiando molto velocemente: siamo nati in piena pandemia, è arrivato lo smart working, alcune abitudini di consumo sono evolute. Detto diversamente, abbiamo un orizzonte ampio ma gestiamo le nostre azioni a breve termine. Oggi resiste solo chi riesce a strutturarsi sotto diversi aspetti, dal marketing alla formazione; e questo è un lavoro che si affina giorno dopo giorno. I successi di altre catene legate a merceologie molto verticali sono lì a dimostrare che il percorso è quello giusto.
C'è, forse, ancora poca conoscenza delle dinamiche del food retail in Italia?
Diciamo che siamo più esposti alle critiche facili. D'altronde, per definizione il food retail è composto da format democratici, funzionali alle esigenze dell'italiano medio. Non esiste una catena di lusso o una catena discount. Questo significa intercettare un pubblico molto ampio e variegato e, di conseguenza, attirare più attenzioni rispetto alla ristorazione tradizionale. Ma questo è in linea con le tendenze del mercato, in cui le catene della ristorazione sono in forte crescita.
C'è bisogno di tempo?
Direi di sì. Prima di giudicare realtà private dal di fuori, sarebbe bene lasciare che dispieghino il proprio potenziale, lasciare che raggiungano quegli obiettivi che esse stesse si erano date. Oggi ci sono meno persone disposte a farlo anche se l'adagio non cambia: solo chi fa può capire quanto sia complicato il settore della ristorazione. Per esempio, noi a settembre lanceremo il nostro progetto di sviluppo in franchising, puntiamo a chiudere l'anno intorno ai 30 punti vendita e siamo in procinto di sbarcare a Londra, su Oxford Street. Vi lascio immaginare l'impegno richiesto.
di Nicola Grolla