Il quotidiano online del food retail
Aggiornato a
Stefano Salvischiani, fondatore di Retail Factory
Stefano Salvischiani, fondatore di Retail Factory
Information
Protagonisti

Stefano Salvischiani: "Food retail, attenzione alla banalizzazione"

Information
- Stefano Salvischiani Retail Factory - Stefano Salvischiani food retail

Food retailer, uomo di marketing, startupper ante litteram, manager di una delle più importante catene di cinema al mondo. Ecco chi è Stefano Salvischiani. Oggi, a 58 anni, guida l'azienda di consulenza Retail Factory dove ha messo a frutto tutta la sua expertise in termini di operations per sostenere lo sviluppo delle piccole e medie imprese del commercio al dettaglio italiane; sia food che non food. "Nel 1998, dopo le esperienze in Nestlé e Unilever, affascinato dal mondo del retail che vedevo all'estero, decisi addirittura di provarci io stesso, fondando una piccola catena di pizzerie, Pizza del Sole. Un'avventura che è durata qualche anno, prima di entrare in UCI Cinemas, e che mi ha fatto capire quanto sia difficile scalare il business della ristorazione", afferma Salvischiani ai microfoni di RM. 

L'intervista a Stefano Salvischiani (Retail Factory). 

Quando e perché nasce Retail Factory?

Retail Factory nasce nel 2018 dopo la conclusione della mia esperienza in UCI Cinemas e un periodo di studio e approfondimento negli Usa. Tornato in Italia mi sono detto: cosa voglio fare da grande? E ho dato avvio a questa azienda di consulenza senza consulenti. L’obiettivo è aiutare i piccoli e medi imprenditori con un approccio concreto, che utilizzi il loro stesso linguaggio. Per farlo ho aggregato diversi ex-manager, gente che ha fatto cose per dirla senza tanti giri di parole, ognuno con la sua professionalità e la volontà di mettere a fattor comune le capacità acquisite durante il loro percorso professionale (l’ultimo ingresso nella “scuderia” è quello di Massimo Barbieri, ndr). Il tutto tenendo sempre la barra dritta sull’aspetto etico del business: persone, onestà e fiducia vanno di pari passo con l’expertise.

Di cosa vi occupate?

Sono quattro le attività principali di Retail Factory. La prima è il customer insight; detto diversamente: capire meglio il cliente dell’azienda che supportiamo. A chi vendi? Qual è il tuo target? La seconda specializzazione è quella tecnologica, ossia cerchiamo di trovare la giusta soluzione per le esigenze del cliente bilanciando costi e benefici così da garantire il ritorno dell’investimento. In terzo luogo, puntiamo molto sullo human capital che, per un settore come il retail ad alta intensità di manodopera, rappresenta una voce di costo da valorizzare per non disperdere valore. Infine, c’è quella che noi chiamiamo la operation excellence, ovvero l’ottimizzazione e l’efficientamento dei processi che comprende anche le strategie di sviluppo; un’area su cui ci stiamo concentrando molto nell’ultimo periodo così da tratteggiare i giusti passi da compiere e il corretto modello di business da assumere per far crescere l’insegna che affianchiamo. 

A proposito di human capital, oggi il problema cronico della ristorazione è quello del personale. Come invertire la rotta?

Partiamo con il dire che oggi il costo del lavoro nel fuoricasa può raggiungere anche il 30% del conto economico di un’insegna. Questo per dire che farsi venire il mal di testa per questo tema ci sta. Detto ciò, però, chiediamoci come mai il reperimento delle risorse è così difficile. A mio parere, in Italia, la ristorazione non riesce a trasferire il senso del lavoro a chi ci lavora e una prospettiva di progressione, che non vuol dire solamente “avanzamento di carriera”. Quella è una parte, direi la conseguenza, di un percorso umano e professionale che parte dal coinvolgimento del dipendente all’interno di un progetto, con degli obiettivi, dei valori e delle necessità operative a cui rispondere attraverso l’accrescimento delle proprie capacità che, a loro volta, portino a un adeguamento salariale.

Oltre al personale, quali sono oggi le tematiche e le sfide che caratterizzano il mercato food retail italiano?

La creatività è da sempre una nostra caratteristica, così come la voglia di fare impresa. Tuttavia, non basta essere un bravo ristoratore per dare vita a una catena e viceversa. Sebbene il playbook sia ormai chiaro, così come le marginalità oggi in calo, infatti, è ancora invalsa l’idea che fare ristorazione sia una cosa semplice. Un approccio che nasconde molti rischi e diverse insidie, tant’è vero che, secondo i dati Fipe, la mortalità delle imprese del fuoricasa a 5 anni dal loro avvio è del 50%. Per sopravvivere servono delle basi solide dal punto di vista finanziario perché fare sviluppo basandosi solo sulla liquidità circolante è utopistico. Il Covid da questo punto di vista è stato uno spartiacque molto importante. 

Quali lezioni valgono ancora oggi?

Due in particolare: crescere è un bene e in Italia, dove le catene di ristorazione rappresentano il 10% del totale del fuoricasa, c’è spazio per lo sviluppo. Tuttavia aprire una nuova location tanto per avere un’altra bandierina sulla mappa non funziona. Siamo nell’epoca della razionalizzazione: trovare la giusta dimensione è essenziale. Poi c’è il tema del prodotto: la qualità della materia prima è un must del mercato italiano. Ma questo non basta, bisogna differenziarsi in modo significativo rispetto al competitor. Altrimenti si distrugge piuttosto che elevare il valore che voglio trasportare nel piatto. 

Da questo punto di vista, la crescente richiesta di cibo salutare può rappresentare un fattore differenziante nel panorama food retail?

Probabilmente sì, a patto che sia una scelta coerente. L’esempio, in questo senso, è la catena americana Sweetgreen. Tutto nasce dall’idea di tre ragazzi che, ai tempi dell’università, cercavano un posto che offrisse del cibo sano al giusto prezzo, che parlasse ai loro coetanei e li proiettasse in quello che è il futuro del cibo e dell’agroalimentare. Da qui hanno dato vita a un menu con offerta veggie molto riconoscibile. Oggi, in giro, vedo ancora poco di tutto ciò. Penso si debba sofisticare maggiormente il pensiero che sta dietro all’offerta gastronomica altrimenti il rischio è quello di riproporre la brutta copia di qualcos’altro oppure di non avere abbastanza grip sulla clientela, sempre più consapevole e attenta ai consumi.

Ciò che invece vale sempre è il modello del quick service restaurant (QSR). Scelta obbligata?

Se si vuole dare vita a una catena, il vincolo principale è quello della replicabilità per cui bisogna trovare il giusto equilibrio fra complessità di investimento e di processo. Il QSR risponde a questa esigenza. Anche se non è un mantra che va bene per tutte le stagioni. Prendiamo il caso del poke: proposta semplice, componibile, processi ben identificabili e controllabili, bassi capex, ecc. permettono una capillarità unica sul mercato. D’altro canto, il rischio è quello dell’omogeneizzazione: si sarà raggiunto un vantaggio finanziario con l’adozione di un format agile ma poi bisogna convincere i clienti senza i quali l’insegna non sta in piedi.

Oltre al conto economico, anche l’aspetto finanziario è ormai essenziale per una catena di ristorazione di successo. Dopo i grandi deal del 2024, qual è il grado di interesse per il fuoricasa?

Andando verso la fine dell’anno, le operazioni si sono un po’ raffreddate. Ma l’interesse c’è ancora e i soggetti che possono dire la loro non mancano. Quello che scarseggia, forse, sono le opportunità di investimento. Lo schema del private equity, per esempio, bene o male è sempre lo stesso: individuazione di aziende a cui apportare capitali o in cui forzare l’inserimento di figure manageriali tali per cui si riesca a sviluppare il valore inespresso dal brand su cui si investe da mettere successivamente sul piatto al momento dell’exit. Sulla carta sembra un’operazione facile ma il tranello è quello di cadere nell’idea che “piccolo è bello”. Non è così: per essere attrattivi bisogna raggiungere una soglia minima di ricavi che, secondo i miei calcoli, non è inferiore ai 20 milioni di euro.

Le insegne che puntano sulla tecnologia per aumentare la redditività hanno più chances di altre?

Il digitale oggi è imprescindibile, questo è un dato di fatto. Pensare, invece, che la tecnologia sia la soluzione a tutti i problemi è sbagliato. Banalmente, che senso ha il kiosk in una gelateria? Oggi la cosa difficile, paradossalmente, è mettersi nei panni del cliente. Se immagino la custormer journery quand’è che rilevo dei momenti di picco emozionale, di piacevolezza e quando quelli di noia e disagio? La tecnologia dovrebbe aiutarmi a superare quest’ultimi, a rendere più tollerabile l’attesa per l’ordinazione oppure più agevole il momento del pagamento non a evitare il contatto con l’operatore, con la vetrina, con il menu, ecc.

di Nicola Grolla

       
    Il sito EdizioniDMh50

Logo Ristorazione Moderna