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Marco Beolchi (Cbre): "Il futuro del food retail? Non solo ristorante ma fornitore di servizi"
Con la sua nomina, Cbre ha deciso di completare il proprio pacchetto di servizi consuleziali per lo sviluppo immobiliare puntando sul food&beverage. Grazie a un'esperienza più che ventennale, infatti, Marco Beolchi, nuovo head of food&beverage di Cbre, è il profilo giusto per guidare gli investimenti sul percorso della ripresa. Dalla consuleza strategica alla gestione del portfolio aziendale, dal franchising alla direzione creativa per la realizzazione dei nuovi concept, la nuova linea di business di cui Beolchi parla nell'intervista a Ristorazione Moderna punta a interecettare "una trendenza che va consolidandosi nel mercato, ma che vede i principali palyer della consulenza ancora poco strutturati", racconta il professionista, conosciuto anche per FoodInSpace, il primo website aggiornato giornalmente e dedicato al design del food&beverage.
Intervista a Marco Beolchi (Cbre).
Dopo la pandemia, che ancora non ci ha lasciato del tutto, e nonostante il caro materie prime e l'inflazione, il comparto del fuoricasa sembra aver recuperato sul 2019. Fragilità e ripresa vanno a braccetto. Che momento sta vivendo il food retail?
Siamo in un periodo molto difficile. Dopo il Covid c’è stata una ripresa piuttosto netta nel settore, che per alcuni ha portato al pareggio o anche all’aumento di fatturato. Certo, ci sono d’altra parte molte situazioni opposte che hanno visto la chiusura di attività o start-up: la ristorazione è un mondo ampio e dalle dinamiche molto fluide. Quello che accomuna po’ tutti, ma soprattutto le attività non organizzate a catena, è la difficoltà ad accedere alla finanza e questo mette in difficoltà la programmazione degli investimenti. Per quanto riguarda lo sviluppo, più di prima il mercato tende a ridurre al minimo il rischio, sia da parte degli investitori che degli operatori, e ciò per il ristoratore si traduce in una maggiore selezione delle location e nell’attivare pratiche di risparmio per “alleggerire” al massimo il conto economico, ovvero cercando di risparmiare sul costo prodotto e sull’allestimento, quando possibile.
Ci sono dei canali che, più di altri, mostrano una ripresa meno consistente?
Il canale che ha avuto più difficoltà durante il Covid è sicuramente quello delle concessioni. Gli aeroporti e le stazioni hanno, per certi periodi, pressoché azzerato i flussi, le autostrade quasi. Oggi si stanno riprendendo, ma fino a un certo punto perché in caso di nuove limitazioni sarebbero le attività più esposte. Più in salute di quello che si pensi, invece, è il canale in town. Lo smart working ha cambiato il modo in cui vivere il centro città, ma ha dato maggiore dignità e valore ai contesti residenziali. Quelli che prima erano considerati dei quartieri dormitori, ora sono al centro di un rinnovato interesse. Il lavoratore che prima usciva la mattina, rientrava la sera e pranzava in ufficio ora scende sotto casa per la pausa. Infine, ci sono i centri commerciali. Anche qui la selezione naturale sta premiando le strutture tripla A oppure quelle che insistono su bacini regionali. Meno fortuna per le shopping destination non integrate.
In tutto questo, lo strumento indispensabile per far crescere il business è il digitale. Che spazio di è ricavato nei format food retail?
La digitalizzazione è un percorso obbligato, ma non del tutto immediato. Chi più chi meno, tutte le insegne del food retail hanno accelerato l’adozione delle soluzioni digitali. Un esempio? Il menu. Da cartaceo a digitale, nessuno tornerebbe più indietro: è un plus per le esigenze di sicurezza del cliente e permette al brand un rapporto più dinamico e aggiornato. Perché non c’è delusione maggiore per un cliente che sentirsi dire che il piatto scelto è terminato. In questo senso va anche letta l’adozione di modalità di self-ordering mutuate dal fast food e ora integrate anche nel segmento del casual dining. Strumenti che aiutano la customer experience in store e che devono poi essere seguite da attività di fidelizzazione. Ormai dovrebbe essere chiaro a chiunque che quando paghi il conto non si esaurisce il rapporto con il cliente che deve invece continuare grazie a mailing list, engagement, up-selling, ecc. Il ristoratore deve trasformarsi da venditore di cibo a venditore di servizi.
Eppure, quello che c'è nel piatto fa sempre più la differenza. Soprattutto in un momento in cui le abitudini di consumo si evolvono velocemente. Quali trend si stanno seguendo per concepire i menu e l'offerta gastronomica?
Per quanto riguarda le abitudini alimentari in linea di massima c’è un certo ritorno alle origini. Dopo due anni di limitazioni, si è imparato nuovamente a cucinare da soli, a consumare sul tavolo in sala, con la famiglia. Tutto questo ha generato una voglia di ritorno alle origini, alla tradizione, alla semplicità. Anche per quanto riguarda le materie prime: pane, farine, pasta, gli ingredienti della cucina mediterranea. Su questo si innesta poi la sensibilità verso l’healthy food. Se pensiamo che per sostenere la richiesta globale di cibo immettiamo nell’atmosfera circa il 35% di gas serra è evidente che l’attenzione alla sostenibilità non è marginale. Non a caso, la carne è un prodotto che, insieme al pesce, è destinato a una rivisitazione della proposta. Non solo il tema ambientale ma anche quello della sicurezza, della tracciabilità, del benessere animale e sociale diventano criteri che pesano nella scelta di menu da parte del cliente.
Per questo si stanno riscoprendo format più tradizionali come quello delle pizzerie, che vede sempre più presenti le catene del food retail?
La pizza rimane un prodotto principe del nostro mercato. Ha visto uno sviluppo importante sia in Italia che all’estero. C’è grande ricerca lato farine, lievitazione, digeribilità e guarnizione. Tanto che la pizza è diventata una referenza sempre più premium; non senza qualche polemica. Si tratta di un fenomeno che, comunque, sta interessando tutto il mondo dei prodotti da forno. Penso che il concetto di bakery, per esempio, non sia stato ancora ben sfruttato e considerato in Italia, potrebbe essere oggetto di un nuovo rilancio: il costo prodotto è relativamente basso e con poca spesa consente di sentirsi sazi. Per certi target, soprattutto i giovani, è una modalità di utilizzo ideale.
Lato layout, invece, quali sono le ultime tendenze?
Per quanto riguarda l’immagine del locale (di cui Beolchi parla sul sito FoodInSpace, ndr), si gioca molto su elementi, colori, materiali naturali o riciclati. Non sono elementi che si sono imposti però in modo categorico nell’immaginario collettivo. Il concetto di “esperienza” è ormai consolidato ma nelle scelte dei clienti il prodotto è spesso ancora predominante rispetto al layout e all’ambiente; per invertire la tendenza è fondamentale, come avviene da tempo, ricorrere a un posizionamento di brand o a campagne marketing che puntano sull’instagrammabilità degli arredi e dei piatti.
Nel suo curriculum ci sono anche diverse esperienze all'estero, soprattutto nei mercati del Sud Est Asiatico. Quali sono le loro particolarità? E si può trarre qualche lezione da importare in Italia?
Il mondo asiatico è molto diverso da quello occidentale. Per quanto riguarda il food&beverage, la maggiore differenza è che non ci sono momenti di consumo così rigidi come il pranzo o la cena qui da noi: si mangia sempre e spesso fuori. In alcuni paesi, penso alla Thailandia, spesso andare al ristorante è più economico che mangiare in casa. Non a caso si è sviluppata una tradizione di street food conosciuta in tutto il mondo. Questa, in alcuni casi, si è evoluta in proposte gourmet e ristorative, anche a catena. L’Italia potrebbe essere un buon mercato per queste tipologie di business. Ma ancora manca, in parte, una platea di master franchisee con organizzazioni importanti alle spalle capaci di gestire un portfolio con 30-40 marchi come avviene all’estero. E questa mancanza si vede anche nell’internazionalizzazione dei nostri brand. Qualcosa si sta muovendo, ma anche dal punto di vista culturale dobbiamo fare un passo avanti: l’eccellenza e l’expertise del Made in Italy non bastano a se stessi, serve flessibilità e adattamento al gusto locale piuttosto che fondamentalismo gastronomico.